Il Sole 24 ore - 12 settembre 2019
C’è un segmento della scuola italiana che funziona piuttosto bene, ma purtroppo è poco conosciuto da famiglie e studenti: è l’istruzione tecnica e professionale. I numeri parlano di un paradosso di casa nostra. Che da noi i percorsi subito “tecnico-pratici” siano un passepartout per il lavoro ce l’ha ripetuto ieri persino l’Ocse: il 68% dei 25-34enni con una qualifica tecnico-professionale ha un impiego. Si tratta di una percentuale «simile» rispetto ai laureati; e viaggiamo addirittura «in controtendenza» rispetto alla maggior parte degli altri paesi Ocse dove il tasso di occupazione è superiore per i giovani adulti laureati. Eppure al momento della scelta della scuola secondaria questi dati non vengono pubblicizzati: il nuovo anno è appena iniziato e la percentuale di iscritti agli istituti tecnici si conferma al 31% del totale nei neo-ingressi; si scende al 14,4% tra i professionali. Vanno meglio i percorsi di istruzione e formazione professionale regionali (specie da Napoli in su).
Il punto è che “non si sfonda”; e questo paradosso ha un effetto diretto molto concreto: il forte mismatch in primis tra i settori manifatturieri, in deciso rialzo, evidenziato anche dalle inchieste condotte da questo giornale nelle scorse settimane. Tra i motivi alla base del mancato decollo dell’istruzione tecnica ci sono nodi di sistema, come il poco orientamento in uscita dalle scuole medie, la scarsa pratica laboratoriale, e di recente, l’alternanza scuola-lavoro dimezzata. Ci sono poi questioni culturali, come la diffusa tendenza a posticipare l’incontro con il lavoro. In Italia, ad esempio, è radicato il motto “prima studi, poi lavori”. Da noi, infatti, appena il 4,4% di under 25 studia e ha un contatto iniziale con le aziende, in Germania è il 36,8 per cento. A ciò si aggiungano due questioni che riguardano direttamente il mondo delle imprese: gli apprendistati duali sono pressoché impossibili, e mancano partnership strutturate tra scuole e imprese. Nel nostro ordinamento abbiamo le reti di scuole da un lato, le reti di impresa dall’altro. Non c’è una governance condivisa. In Italia il mismatch dipende anche dai bassi numeri sui laureati (e soprattutto laureate) nelle discipline Stem e da quelli ancora minori in uscita dal canale formativo, secondario e terziario, professionalizzante.
Eppure, nonostante questi “freni”, l’istruzione tecnico-professionali si conferma una formazione di livello, e, sempre secondo l’Ocse, rappresenta «un percorso efficace per l’ingresso nel mondo del lavoro». «Ne siamo convinti da sempre - ha spiegato Cristina Grieco (Toscana), coordinatrice degli assessori regionali a Istruzione Lavoro -. Serve rilanciare questi percorsi, rafforzando l’orientamento».
Non c’è dubbio che la fotografia scattata dall’Ocse «mostra il valore dell’istruzione tecnica italiana - ha aggiunto Gianni Brugnoli, vice presidente di Confindustria con delega all’Education -. In Italia chi ha un diploma tecnico ha le stesse chance di trovare lavoro di un laureato, perché forte è l’interazione tra queste scuole e le imprese. Stiamo parlando di percorsi di altissima qualità che nobilitano i ragazzi con una formazione che garantisce occupazione. Credo che sarebbe corretto rinominare gli istituti tecnici “Licei Tecnici”. Una provocazione che riuscirebbe da un lato a riconoscerne l’eccellenza e, dall’altro, a renderli più attrattivi».